martedì 28 febbraio 2023

Fremo,

 eppur non ci credo!

Sei davvero tu? Mi sembra ieri, che mi stringevi fra le braccia, 

solo una fotografia, ora, che sarà carta straccia.

Restano i ricordi, i pensieri,

quegli occhi così veri, 

i tuoi occhi verdi, i miei,

su uno specchio sembrano gli stessi, dimenticare non potrei.

Nemmeno le parole, quelle belle,

le risate a crepapelle,

e le frasi dure, maledette congetture.

Che faccio, oggi?

Dovunque vada, la tua mancanza tesse una rete senza appoggi.

Sciolgo i nervi e i pensieri sui fogli,

forse nasceranno nuovi germogli,

quelli dei sogni non ancora sbriciolati,

e dei dolori, volontariamente accartocciati.

giovedì 18 luglio 2019

Invidisabilità [tanto loro non vedono]

Cosa fai oggi, vieni con noi?
Non puoi.
Non vuoi?
E' che in questo momento
sento dentro un tormento.
Il mio cervello corre troppo veloce
il vostro giudizio è feroce.
Ho bisogno di un attimo, vi prego.
Sai che c'è? Me ne frego
Fai pace con te stessa, ragazza complessa.
Io vi vedo, dentro.
Ve lo giuro, mi concentro.
Voglio sentirli, i vostri pensieri. Cosa avete provato ieri?
Ieri, anche ieri, io ero persa nei miei sentieri.
Ma vi ho visti
che cercavate di essere anticonformisti.
Ci avete provato a capire,
che per me ha deciso il fato.
Sono innocente
non perdente.
Io i segni li ho dentro
sono loro il mio baricentro
fra un sorriso forzato
e un viso asciugato.
Mi piace passeggiare,
questa vita la voglio assaggiare.
O forse divorare, trascinare fuori
commettere errori.
Non fermate la mia corsa
vi raggiungo e prendo la rincorsa.
La normalità che cercate
è l'abilità che non trovate.
Disabilità nell'accettare
invisibilità nell'amare.
Dovreste provare, voi;
sapreste vedere poi
che tutta la vita
vi scorre in attimi fra le dita,
e non capite che va vissuta
fino a che la vostra mano diventa ossuta.
Tenete quella mente sveglia e acuta
il vostro occhio vi aiuta.
Guardate
non barate.
Sono qui, sono viva.
Impulsiva.
Primitiva.
Rediviva.

L'oDore del Dolore.

Ci sono dei Dolori che vivi, e non sai spiegare.
Non sai cosa ti va, né dove vorresti andare.
Ti chiedono se c'è qualcosa che possono fare,
possono?
Non lo sai,
Tu un disegno ce l'avevi, ora non ce l'hai.
I colori, sono diventati odori.
Effervescenti, ma evanescenti.
Persistenti, ma fatiscenti.
Le nubi sul petto
ti fanno un certo effetto.
Quello di una coltre,
al di là della quale non vedi oltre.
Una nebbia grigia e fitta,
che negli occhi ti guarda dritta.
Una pressione costante sui polsi, sulla vita,
che vorresti afferrare e strappare con le dita.
Un velo di disagio, nello stomaco, che ti attanaglia.
Quello che hai perso, una battaglia.
E la guerra?
Ti rialzi da terra.
Le ginocchia sbucciate,le lacrime versate
le braccia affaticate.
Non hai la pretesa, di dimenticare;
non ti sei mai arresa, è ora di andare.
Immergiti a fondo, in quella sofferenza,
che è troppo, ma non puoi viverne senza.

martedì 25 agosto 2015

Un cuore, le mani sul petto.

Mamma, ho male.
Dove tesoro?
Qui (indica il petto).
Ma io non vedo niente...
No, mamma, dentro. Qui, in fondo.
Apri la bocca. No, non vedo nulla è tutto ok.
Mamma, non puoi vedere niente da lì, è più giù.
Apri gli occhi. Vedo qualcosa, dentro a quegli occhioni a metà fra il colore delle foglie e quello del vento.
La mamma poggia le mani sul suo petto, le incrocia, in una strana preghiera; o almeno, così credo.
Di colpo le apre e me le poggia lì, nel nucleo dove sboccia il mio dolore e quasi mi sento soffocare.
Ecco, questa è la medicina.
Che medicina è, mamma?
Si chiama amore: forse ci vorrà un pò, ma vedrai che cancellerà il tuo dolore, quasi del tutto. E rimarrai con in mano il tuo sorriso più bello e un leggero ricordo.

martedì 18 agosto 2015

Un oceano, in una goccia.

Considerami un'eccezione,
in un mondo pieno di regole.

Considerami senza tempo,
in un mondo che rincorre l'orologio.

Considerami una parentesi,
in un mondo che non contempla spazi liberi.


Considerami un'arma,
in un mondo dove ognuno funge da scudo.








Considerami una stella,
in un universo gremito di buio.

giovedì 26 giugno 2014

Che sintomi ha, l'amore?

Io
Non
Vedo
In-
Dietro;
Io
Accolgo
Variabili,
Sensazioni,
Allegria.
Mi
Obbligo a
Restare
Ellittica.

martedì 24 giugno 2014

Buongiorno.

Che il tuo cuore sia in balìa degli eventi come le onde del mare.
Che i tuoi occhi guizzino nel mondo come i pesci nell'acqua.
Che i tuoi pensieri tristi volino via come le nuvole di passaggio dopo un temporale.
Che le tue mani e i tuoi piedi non si fermino appena oltre la linea fra il tuo corpo e ciò che ti circonda.


martedì 27 maggio 2014

La Bambina, è l'Infinito.


                          

La Bambina, e l’infinito.



  […] E fu quando conobbe il sole,
che cominciò a cercare l’infinito. […]





La bambina, e il mare.

Non aveva mai guardato il mare con gli occhi stanchi.
Nella sua immaginazione le onde che sbattevano, che rumoreggiavano, che le solleticavano i pensieri erano così dolci, soavi, inerti.

Un giorno, trovò il mare nei suoi occhi. Le nuvole ne oscuravano il riflesso, e il sale bruciava. Feriva, infieriva sul suo sguardo, rendendola incapace di guardare oltre e di guardarsi.
La schiuma languiva le sue pupille, le dissolveva e le riduceva in contorni indefiniti.
Le ciglia erano diventate evanescenti e il suo respiro affannato, mentre cercava di lasciare andare le onde verso l'infinito. Eppure le aveva imprigionate nei suoi occhi, e ne era cosciente. Aveva teso loro una trappola e aveva goduto nel vederle ridotte a semplici e insignificanti movimenti ondulatori che dell'infinito non avevano più traccia.
Si era resa conto di essere felice di avere preso possesso della loro libertà, del loro dolce ondulare sereno e pacato, mentre dentro di lei era in corso una bufera.

Già, perché se fosse stata una guerra avrebbe lottato contro un nemico reale.
Ma la bufera che lentamente la distruggeva non era tangibile, e non aveva nulla di materiale.

Erano solo lei, e lei stessa. E la trappola del mare.

 

La bambina, con la sabbia tra le mani.

Scava nella sabbia umida, alla ricerca dei granelli, dei momenti e delle persone che ha perso.
Il dolore nei polpastrelli la riporta alla realtà, e negli occhi spenti e vuoti, gli occhi bianchi e puri della sua mente non vede che immagini riflesse, che non esistono, giochi di colori opachi, che non comprende;

è così abituata a vedere le cose bianche e nere, anche gli alberi a primavera e i fiori nei campi estivi.

Avrebbe un solo desiderio: che il sole la bruciasse come fa col grano, che seccasse la sua pelle fino a romperla in mille pezzi come fa con la terra nella piena arsura estiva.

Vorrebbe che la luna e la terra si chiudessero a cerchio e la inglobassero nella loro bellezza luminosa e triste, che quasi fa male tanto è grande.
Vorrebbe che la sua bocca non riuscisse più a parlare, cucita con fili di acciaio, senza proferire più parole di piombo.

Vorrebbe che ogni eccesso si trasformasse nel normale scorrere della vita quotidiana, come in un film: dove tutto è scandaloso, dove tutto finisce, dove tutto è normale.

La bambina, e le nuvole.

In mezzo a loro, si smarriscono i ricordi.
Lei, cerca incessantemente una maniera per riordinarli, ma il cielo è così variabile che compaiono e scompaiono continuamente.
C'è un modo per acchiappare le nuvole?

-Già, forse potrebbe fare loro una fotografia. Potrebbe immortalarle nella loro forma instabile, potrebbe bloccarne i movimenti con uno scatto. Ma succederebbe che, dopo lo scatto, loro si muoverebbero comunque.
[Già, se fermo l'orologio non fermo il tempo.]
Potrebbe provare a scriverne. A descriverne i movimenti, i colori, i giochi.
Ma come si scrive del cielo? Con quali parole? Basterebbero quelle che ha imparato a scuola, o sono necessarie nuove espressioni, nuovi giochi di parole, nuovi proverbi? Come si scrive dell'infinito?

Qualcuno ci ha provato una volta; anche lei ci prova continuamente, quando tenta di descrivere l'Amore, quando tenta di catalogare i sentimenti, quando cerca d'inscatolare le emozioni, sue e altrui.
Ma nel suo cuore, sa che non è così.

Lei sa che le fotografie, le parole sono solo tentativi di inscrivere dentro di sé qualcosa che non vorrebbe  mai perdere,e che vorrebbe conservare davanti ai suoi occhi, come lo specchio restituisce l’ immagine.

- Perché in realtà, i ricordi sono già fotografie senza scatto, sono parole senza inchiostro.Ma ogni tentativo di materializzarli diventa inutile.

E' la sensazione che la pervade sempre: quella secondo cui ‘sta provando qualcosa, ma non riesce a spiegare come, quanto, perché.’

La sensazione umana di voler essere onnipotente ma di avere coscienza che questo è impossibile. E la continua tensione verso l'infinito, la tiene in vita.
E la avvicina al terrore che ha di sé stessa. Ma con coscienza, con coerenza, con complicità.


La bambina, e i sogni.

Tu, hai paura del buio? Lei, ne aveva un po’.
Era combattuta fra il desiderio di nascondersi fra le coccole che il buio poteva darle e l’insicurezza di non poter vedere con i propri occhi la strada da percorrere.
E poi, parlare nel buio, parlare con il buio era inutile: l’unica voce che si udiva era l’eco sussurrato delle sue parole. Quel silenzio era comunque ristorativo: udire il riflesso delle sue parole aveva qualcosa di poetico, come quando ci si guarda riflessi in un lago e i contorni ben definiti del viso risultano frammentati ed imperfetti.

Ma la cosa per la quale non avrebbe mai barattato il buio con la luce erano i sogni: quei piccoli lapsus di gioia, quelle perle di immaginazione, quei bellissimi castelli costruiti sulla riva del mare, quelle intrepide lotte in cui lei usciva sempre ferita ma vincitrice. Si domandava se anche la vita, talvolta, l’avrebbe resa come nei suoi sogni, anche solo un po’.


La bambina, e la chiave.

Lei credeva nei sogni. Loro erano la sua via di fuga, quando le sue gambe non ne volevano sapere di correre; loro erano gli amici che la consolavano, quando nessuna parola o nessun regalo le strappava un sorriso; loro erano la porta di accesso alla speranza, quando nessuna porta si apriva davanti a lei.
Nel suo rifugio, nella scatola dei suoi sogni si sentiva protetta, si sentiva coccolata, si sentiva amata.

Quella scatola, ormai, era stata logorata; da troppe lacrime, da troppi accessi con foga,  da calpestii di piedi troppo arrabbiati.
E allora decise che era ora di buttare quella chiave nell’infinito e guardarla mentre veniva inghiottita, senza tristezza, con una rinnovata voglia di cambiare chiave, di aprire altre porte, di far filtrare la luce attraverso finestre ariose e spensierate.
Si rese conto che avrebbe cercato una chiave soltanto da quel momento, una per tutte: la chiave che apre la porta, le porte della Vita.






La bambina, e le stelle.

Ai piedi del letto aveva un tappeto, di quelli che si comprano alle fiere con mamma e papà.
Il suo era di un bel blu, con le stelle tanto grandi che contenevano entrambi i suoi piedini quando scendeva dal letto, ogni mattina. Era morbido come il pupazzo che stringeva prima di dormire, soffice come una torta appena fatta, luminoso come la spiaggia che amava tanto visitare durante le vacanze.

Non capiva come una distesa così infinita, intensa e intrigante come il cielo di notte potesse essere costellato da così tante piccole luci, e come da vicino queste luci potessero diventare tanto grandi da calamitare su di esse lo sguardo dei sognatori.
Fu così che chiese alla sua mamma la risposta.

Le disse: ‘Sai, io ti ho tenuto in grembo per lunghi mesi, per me eri buio, non potevo vederti, non potevo parlarti, non potevo raccontarti le favole prima che ti addormentassi. Eppure in quel buio, fra la mia immaginazione e le immagini che mi mostravano di te, vedevo una luce, così piccola da brillare su tutto, da dominare sul buio dei miei occhi ma riempire di luce la mia vita: era il tuo cuore.
-Quello, è il solo che vedrai brillare quando attorno a te sembra tutto buio.’

La bambina, e la neve.

Una disarmante distesa bianca, soltanto le punte dei tetti delle case si vedono in lontananza, il gelo pervade l’ambiente come una fotografia senza sfondo, eterea.
Gli sguardi si cristallizzano come le dita, un freddo palpito scorre nelle vene, così glaciale da mandarle in fiamme. E il fuoco divampa ma non regge a contatto col gelo: si affievolisce e infine si spegne, come un sipario che si chiude sull’ultima scena.
Sembrava strano, eppure era vero: aveva perso la via di casa. Attorno a lei solo un candore che la preoccupava, un silenzio troppo silenzioso e troppo opprimente per poter essere reale. Ma non stava sognando: pochi secondi prima era lì, sul balcone di casa, e il sole splendeva alto nel cielo.

Poi, la bufera, il freddo, la solitudine: era così facile sentirsi perduti.


La bambina, e il tempo.

Buon compleanno! Le grida degli amici provenivano da ogni lato del giardino, tutti erano in festa e giocavano felici, lei aveva appena spento le candeline, ed era contenta.
Buon compleanno. La nonna, distesa sul suo letto, non era serena. Lacrime silenziose sgorgavano sul suo volto, e un sorriso forzato riempiva un viso altrimenti troppo scarno.
Non c’erano candeline, non c’era una torta di cioccolato e panna montata, non c’erano amici, e non giocavano in giardino.

Ma una cosa c’era:le avrebbe preparato una torta con tante candeline, non dei suoi anni, ma dei granelli del suo cuore, ciascuno dei quali conteneva tanto amore quanto una distesa di sabbia.
L’avrebbe portata in giardino, e raccolto un mazzo di fiori così grande che il cuore della sua nonna sarebbe straripato di gioia.
Avrebbe fatto una fotografia di loro due, guancia contro guancia; una fotografia impressa nei loro occhi, che non aveva bisogno di parole, di rullini e di album, che nessun compleanno e nessun tempo avrebbe scalfito.

Sarebbe rimasta il loro regalo, sempre.

La bambina, e lo sguardo.

Quando guardava le carte geografiche s’immaginava il mondo, i colori e i profumi dei luoghi che avrebbe voluto visitare.
La natura forte e selvaggia delle grandi foreste, l’atmosfera afosa e asfissiante dei deserti, le monumentali città da guardare con gli occhi spalancati.
E poi guardava attorno a sé, le luci della classe riflettevano sul biancore del suo banco lanciandole addosso una scia trasparente ma ben delineata.

E su quella scia correva veloce la sua fantasia, che non aveva bisogno di strade a troppe corsie, la polvere non poteva confondere i suoi desideri e là, dove credeva di perdere l’orientamento, la bussola dell’anima la riportava al suo Nord, da cui era partita – o forse fuggita -  e verso cui avrebbe voluto ritornare – o scappare di nuovo? -.

Come un amore intenso ma fugace continuava a piccoli passi ad immaginare paesi e a masticare sogni, con nient’altro che gioia negli occhi e fame di vita nello stomaco.

La bambina, e la maschera.

Finalmente era arrivato il carnevale.
Finalmente il costume che ogni sera, prima di addormentarsi, ammirava con orgoglio la copriva per intero. Le servivano soltanto le mani libere, e gli occhi, per scrutare tutte le maschere della festa.
Ce n’era una che apprezzava particolarmente: era una perfetta suddivisione fra la luce e il buio, fra il chiaro e lo scuro, fra il bianco e il nero. Anche la testa era nettamente separata fra i due colori, quasi a voler mostrare un matrimonio riuscito ma imperfetto.
La cosa che più di tutte l’attirava era la linea di demarcazione dei due colori: non sapeva se vederla come un inizio, del nero, o una fine, del bianco.




La bambina, e il sé.

Voleva sapere quanti erano gli strati, prima di arrivare al Se(Me) ?
C’era lo strato superficiale, tirato a lucido; quello che si rinnova ogni giorno, che cambia ma rimane lo stesso, quello che tutti vedono ma dentro al quale nessuno scava [o vuole scavare].
E poi appena uno strato sotto, affiorano le prime crepe; le parole dette-non dette, quei respiri trattenuti ma solo per pochi istanti, i piccoli dolori passeggeri.
Scendendo più in basso, di lei, si aprono le voragini dell'Io; la matriosca non si apre solo in due parti, ma in mille; e se avesse voluto ridurre le crepe a due, sarebbero state quella del Conscio dichiarato e dell'Inconscio nascosto, perverso, duro, complesso e complicato.

Tutto ciò per proteggere quel Se(me) distante e incompreso, quello che vorrebbe essere chiaro ma si nasconde, quello delle evidenze inintelleggibili, quello in cui desideri e paure si mescolano fino a diventare sensazioni, imposizioni della mente.

- Ma quant'è grande questo Se(Me) che si basa su così tanti presupposti?

Si chiedeva: vale la pena continuare a trincerarlo fra le catene illusorie e le maschere dell'Io?
E [Se] poi non valesse così tanto; e se [Me] continuasse a confondersi?

I due, troppo vicini, rischiano di plasmarsi l'un l'altro; e lei, di ritrovarsi fra le mani un burattinaio senza più fili.

La bambina, e le parole.


Cercava sempre un pretesto, un modo, un’ emozione per parlare,lei. A volte, per sopperire alla mancanza, al silenzio che vigeva fra lei e la sua anima, parlava con i muri, con le finestre, faceva scorrere parole fra le sue dita e ,respirando, quasi in affanno, si precipitava a cercare quello che non riusciva a comprendere.
Una notte fece un sogno: una voce candida, un viso etereo, un temporale di luce sopra i suoi occhi, le nuvole gli danzavano attorno come le vallette di un talk show.

-         Sorridi, perché sul tuo viso è come una magia.
Sii felice, perché c’è sempre una ragione per farlo: la felicità è una malattia, altamente contagiosa, altamente pericolosa, altamente raccomandata.
Sii sincera, perché le bugie hanno le gambe corte, e con la verità puoi volare lontano.
Sii forte, perché dopo la sofferenza il domani ti precede, e ti apre la porta.
Sii te stessa, perché sei bellissima così. Lei si svegliò, d’un tratto: e seppe che non era così indispensabile, cercare sempre le parole.

La bambina, e il buio.

La osservavano tutti, quando piangeva su quel treno.
Non piangeva per un giocattolo, non voleva sapere quando sarebbe arrivata a destinazione, non voleva continuare a piangere ma la fontana della sua sofferenza sgorgava imperterrita bagnandole occhi e guance.
Guardava fuori dal finestrino: il sole le rifletteva sulle lacrime come sulla superficie del mare, e la sera i raggi di luna pungevano i suoi occhi stanchi.

Per quanto la luna fosse grande, era il buio attorno a lei che inghiottiva i suoi pensieri, e che le faceva paura. Là, nonostante gli occhi limpidi e la mente aperta, non riusciva a scorgere nulla se non in lontananza: le case, le luci, gli sfondi della città venivano risucchiati dal treno che correva veloce.
Nemmeno i sobbalzi la distraevano: aveva tracciato come una linea retta che teneva incollati i suoi occhi al buio, e come ipnotizzata non riusciva a distogliere lo sguardo.

Pietrificata, assente ma attenta, si chiedeva come questo buio somigliasse tanto all’assenza di quella persona che aveva tanto amato, ora sdraiata su un letto dal quale pareva non avesse mai la forza di sollevarsi. Con le pupille aperte ma sfocate, con le mani immobili e le dita che tremavano lievi, sembrava un film rimasto a metà, con la stessa scena ripetuta all’infinito.

La scena di un grande amore, che termina con i titoli di coda, ma che in realtà mai sarebbe terminato.


La bambina, e il profumo delle foglie d'autunno.

Girava in cerchio attorno a quell’albero di pesco, che finita l’estate un po’ diventava triste e non faceva più frutti né fiori.
A terra le foglie diventavano del colore della terra e del rosso di sera, e il profumo dell’erba rendeva tutto una favola bellissima.
Mano a mano che si stancava, restringeva sempre di più il cerchio attorno al pesco, quasi volesse entrare in contatto con lui e parlargli, stringerlo, toccarlo e donargli affetto. Era quello, il suo migliore amico.
Lo salutava dal balcone, appena sveglia. Lo guardava meravigliata quando faceva colazione, sorpresa del fatto che lui stesse sempre immobile, che non avesse mai sonno, né fame, né voglia di giocare.
E lui l’aspettava sempre, non si opponeva ai suoi abbracci, non si ribellava quando le gridava contro la sua rabbia, quando lei si chiedeva perché non rispondesse mai.
Con il tempo, cominciò ad amare il suo silenzio, perché le trasmetteva pace quando tutto il mondo gridava, le donava un amore silenzioso quando gli altri la ignoravano.

E quando cambiò casa, il suo cuore pensava a lui, spesso, e in quei momenti si sentiva come il pesco, d’autunno.

La bambina, e il dolore.
Le lacrime riempivano i suoi occhi, la gola bruciava e il cuore era infiammato dall’emozione.
Quell’emozione, la consapevolezza della sua colpa pesava come un macigno dentro di lei. Non era stata nessuna tempesta a bagnare e a distruggere la terra fertile, non era stato nessun sole cocente a bruciare tutte le coltivazioni di quell’anno, non era stato nessun vento a soffiare via quello che era rimasto da seminare.
Erano state le sue mani, come in un incubo, a distruggere quel terreno fecondo, a strappare con rabbia tutte le piante e tutti i fiori e a gettare nel vento le sementi tanto attese.
Era stato il suo cuore, duro come ghiaccio e insapore come un pasto precotto, a guidare le sue mani, e loro avevano compiuto il resto. I suoi piedi calpestavano tutto quello che incontravano, tutta quell’esplosione di frutti e fiori che lei da sempre amava.
O forse si era illusa di amare.
Il senso di colpa era amaro e raschiava, in fondo alla gola, come braci dure e spente.
La bambina, e il dovere.
Qualcuno avrebbe deciso per lei, come sempre.
Del resto era troppo piccola per avere voce in capitolo, chissà se fosse un caso che soffriva spesso di abbassamenti di voce; come se la sua voce a un certo punto si rifiutasse di nascondersi ancora, e scappasse definitivamente da lei. Come se quella voce che tanto aveva paura a far udire potesse in qualche modo cambiare il mondo.
E così seguiva chi la conduceva, ascoltava sempre chi le parlava e le diceva che era meglio fosse stato così, che lei non era ancora in grado di sapere cosa sarebbe stato meglio, che lei ancora non era in grado di far sentire la sua voce.
Cosa significava, la sua voce? Era soltanto l’ennesimo grido di vittoria, era forse sintomo di gioia, era un modo per farle più male di un calcio?
Quando seppe che la sua voce altro non era che lei stessa, fece pace con lei e con il silenzio. E loro tre, da quel momento camminavano insieme per mano, senza stringere troppo forte, senza farsi troppo male, senza lasciarsi andare mai.

La bambina, e le stagioni.
Si dice che con la bella stagione si esce di più, ci sono le giornate che profumano di sole e di bel tempo, i parchi sono tutti grida e giochi, le strade brulicanti di vita.
Si dice anche che l’inverno, freddo e umido, porta tristezza nelle vite delle persone, soprattutto in quelle dei bambini, che devono confinare la loro voglia di muoversi tra i banchi di scuola e le mura asfissianti delle loro case.
Non si dice mai, però, a lei piace tanto l’inverno: le piace il sole, d’inverno, perché è più puro, più pulito, più semplice, più asciutto. Le piace la pioggia d’estate perché rompe la monotonia, rompe il caldo e l’afa, rinfresca l’aria e ristora i corpi.
Le sue stagioni avevano tutta l’aria di essere al contrario, come se lei camminasse sul mondo a testa in giù, come se lei vedesse l’inizio là dove tutti vedevano la fine, come se lei vedesse l’alba là dove tutti vedevano il tramonto.
Meno male che esistevano la primavera e l’autunno che la facevano somigliare, anche poco, a tutto il resto del mondo.


Metamorfosi, di una bambina perbene.

Lei, voleva sentirsi alternativa.

Si chiedeva cosa serviva, per potersi distinguere dall'immagine che all'esterno di noi veniva creata, inconsciamente, realmente o illusoriamente,e che veniva regalata all'ambiente di vita quotidiana?
Si chiedeva se i contorni che le venivano disegnati ed incollati addosso [e dentro] riguardavano i corrispettivi che lei pagava al mondo? Sono in realtà lo specchio del suo opposto o la restituzione, la fotografia di quello che aveva infossato in lei e non voleva più tirare fuori?

E non avrebbero potuto essere più semplicemente il ritratto di lei stessa?
Era così facile, a volte, essere quella che era davvero, che s'inventava la via più difficile e complessa per arrivarci; ovvero il fingersi qualcosa e qualcuno che non le somigliava.

- Era un po’ come la somiglianza fra lei e suo padre; avrebbero potuto essere davvero immense le similitudini ma suo padre non sarebbe mai stato identico a lei, pur l'uno avendo generato l'altra.

E nemmeno lei era davvero madre dell'Idea che la definiva, all'esterno;avrebbe potuto in realtà somigliarle molto, ma senza nessuna pretesa di sovrapporsi, nell’identificarla.


La bambina, e l’Amore.

Desiderava averlo.
Ma non era possesso, il suo desiderio; voleva averlo contro la sua carne ma anche dentro di lei, anima contro anima, se non una fusione, gli avrebbe lasciato volentieri tutto lo spazio di cui avrebbe avuto bisogno.
Occhi dentro ai suoi, quelle perle color cioccolato caldo così intense, struggenti, magiche.
E il profumo delle labbra di lui, così vicine alle sue, ma così insolenti da sputare, spesso, troppe sentenze. Parole vuote e incoronate dalla sua voglia di non averne abbastanza, mai.
Provare rabbia sarebbe stato qualcosa, ma dentro di lei lo ossessionava; non voleva, non poteva averne mai abbastanza. Avrebbe voluto divorarlo, per averlo completamente, in maniera osmotica e quasi dispotica.
La regina del nulla, la chiamavano. Tanto voleva avere, nulla poteva comandare.
Eppure, lei lo voleva. Il dolce ossimoro della distruzione.

 La bambina, è diventata donna.

L’amore, il mare, farsi male.
Eterna lotta fra di loro, o almeno così sembra.
Sono in realtà molto più vicini di due fratelli nati nello stesso istante.
Si sovrappongono, si amalgamano e si confondono, per dare vita ad un amore malato, un amore che spesso è causa e risoluzione di sé stesso.

- Già, lei sapeva, non si può amare senza farsi male, non completamente.

L'amore non è male, ma sovente con esso s'identifica e ne delinea i contorni.
Ed anche l'amore malato soffre, d'una discrepanza continua fra il desiderio e il suo essere.
Poiché non viene desiderato mai ciò che è, ma è sempre un po’ come è stato desiderato.

E quel poco è la causa del male.
Nessuno le ha insegnato ad amare, nessuno sapeva alla perfezione come fare; e anche lei andava a tentativi, come quando si sbucciava le ginocchia, per provare l'equilibrio sulle proprie gambe.
Cadeva e si rialzava, innumerevoli volte.
Non sempre si feriva, ma spesso; alcune volte rideva, anche. E non rideva perché godeva del male, ma rideva del fatto che, ancora una volta, si era alzata in piedi, da sola.

E se qualcuno, una volta, le aveva detto che dentro sarebbe rimasta sempre un po’ bambina, di certo in amore non sarebbe cresciuta.

- La lotta fra il corpo adulto e il desiderio infantile è sempre lì.

[Titoli di coda.]

Libro terminato. Mano ferma.
Brividi che s'inceppano.

Dentro a questo film, i titoli di coda sono sfocati, non definiti, fibrillosi.
La retroilluminazione manca, non riesce a vedere nulla, nemmeno l'ombra di quella che, alla fine, sarebbe risultata la sua storia.
Arrivata già alla fine, eppure manca ancora tutto; le manca anzitutto l'ispirazione, l'ispirazione di vedere quello che sarebbe stato, e di quello che invece non é.

Dovrebbe riscrivere, tutto; forse. Ma é arrivata troppo oltre, si é spinta troppo in là, troppo oltre i confini della sua personale comprensione e cognizione delle cose.
E così ha conosciuto il piacere di stare sola, quello di parlare con se stessa, senza mediatori; e senza troppe catene.
Ha rotto tutti gli argini ed è straripata dentro le rive di quel mare che detesta, ma che l’ha dissetata; troppo salato, da cui era pur sempre dipendente e cieca di fronte alle sue onde.
Quei movimenti che le  rimbalzavano nello stomaco e che sopraggiungevano quando era giù, e la riscuotevano, e la animavano,e le violentavano l'anima. E la percuotevano, e così diventava cieca, di fronte al suo nome.
E allora si lasciava accarezzare, si lasciava ammorbidire da quella schiuma bianca, che lambiva i confini, seppur instabili, del suo sguardo, e la riconduceva là, dove temeva di essersi persa.



[…] E fu quando conobbe l’infinito,
che cominciò a cercare sé stessa. […]









giovedì 3 aprile 2014

L'amore ha tanti volti.

[...] Fra quelli che dimentichiamo, o che non pensiamo esistano, ce n'è uno che fa male: il non amare.


mercoledì 22 gennaio 2014

Morning Star.

Buongiorno, amore.

Sai, ho guardato il cielo stamattina. Ci ho provato, anche se mi facevano male ancora gli occhi.
Poi ho chiuso gli occhi, e ho continuato a vedere il cielo; aveva un profumo delizioso, come i fiori a primavera e il caffè la mattina.

Poi, pensavo a te. Sai, mi sembra strano averti nella mia vita, ma così normale; quasi fosse un segno, un dato di fatto che siamo nati per stare vicino.
Mi sembra così normale, dormirti accanto e stringerti. Accarezzarti le ciglia, e osservarti mentre ridi per il solletico. Toccare quelle guance con le fossette e meravigliarmi della tua bellezza.
Prenderti per mano, e non lasciarti andare via. Incatenarmi al tuo sguardo come una prigioniera felice, con le tue gambe a farmi da scudo e il tuo corpo da difesa.

Solo grazie, per regalarmi la tua mano quando scivolo, il tuo cuore quando cado, la tua forza quando devo rialzarmi e non ci riesco.