Mi servirebbe capire cosa vuoi da me. Vorrei sapere che
gusto provi nel frapporti fra la mia persona e la mia personalità. Che tu stia
cercando di rubarmela? Di essere particolare non se ne parla. Non si tratta nemmeno di bellezza, di
presunzione o di orgoglio. Cosa vuoi, allora?
Arrivi, ogni secondo, e in ogni respiro metti in discussione
ciò per cui ho tanto combattuto.
I miei sensi in allerta, i miei nervi infranti, le mie
responsabilità buttate al vento. Che ne sarà dei sacrifici, delle mie
battaglie, quelle perse e quelle vinte? E di quelle che ancora devo combattere?
La naturale differenza fra istinto e volontà, è molto più
che la vitale prosecuzione del giorno e della notte, anche più semplice della
differenza fra il nero e il bianco.
Inerme è la mia sofferenza, le braccia sono molli attorno al
corpo in attesa di essere rinfrancate.
L’attesa, poi, è saturante e nervosa. Mi sembra di correre
qua e là eppure sto ferma e non ho voglia di camminare. Vorrei correre ma
soltanto per scappare, per nascondermi in un luogo ancora più deserto e
desolato. E le gare, quelle fra i sensi di colpa e le gratitudini; mi sembra di
essere un angelo in coda per l’Inferno.
Che terribile negazione, che disastrosa disaffermazione di
me. Non so più parlare di concretezza, non so più accarezzarmi i capelli e
dirmi che mi voglio bene, sentirli morbidi e abbandonati sotto le mie dita. Non
riesco a comunicare un bacio senza labbra, attraverso gli occhi, e non riesco
più a parlare senza farmi del male.
Mi sento un pesce, che affoga e boccheggia nell’acqua in cui
è nato; che io abbia bisogno di aria dunque? Che stia diventando un pesce fuor
d’acqua e fuori di me? Non lo so, e il peggio è che credo di sapere più cose di
quelle in cui veramente credo.
Il gioco fra quello che è e quello che voglio si sta facendo
davvero pericoloso e io ho paura, paura di scoprire che non è un gioco; sapere
che è un sogno ma non riuscire a svegliarmi. Ho paura di abbandonare l’unica
vela che mi potrebbe portare dritta sulla terraferma, perché in realtà sono
confinata sopra un lembo di terra da cui è impossibile allontanarsi, da cui è
semplicemente permesso scappare e non tornare mai più.
Ma perché, quindi, non rimango e la faccio fin(i)ta di
dilaniarmi il cuore e il corpo?
Semplice, perché quel lembo di terra si chiama vita. L’isola
felice da lontano, l’approdo dei desideri, il punto fermo delle paure e dei
miei terrori, e di scappare non se ne parla.
Non si può.
Non si vede.
Non devo, non vedo.
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