lunedì 22 ottobre 2012

La visione distorta di una mente contorta


Mi servirebbe capire cosa vuoi da me. Vorrei sapere che gusto provi nel frapporti fra la mia persona e la mia personalità. Che tu stia cercando di rubarmela? Di essere particolare non se ne parla.  Non si tratta nemmeno di bellezza, di presunzione o di orgoglio. Cosa vuoi, allora?
Arrivi, ogni secondo, e in ogni respiro metti in discussione ciò per cui ho tanto combattuto.
I miei sensi in allerta, i miei nervi infranti, le mie responsabilità buttate al vento. Che ne sarà dei sacrifici, delle mie battaglie, quelle perse e quelle vinte? E di quelle che ancora devo combattere?
La naturale differenza fra istinto e volontà, è molto più che la vitale prosecuzione del giorno e della notte, anche più semplice della differenza fra il nero e il bianco.
Inerme è la mia sofferenza, le braccia sono molli attorno al corpo in attesa di essere rinfrancate.

L’attesa, poi, è saturante e nervosa. Mi sembra di correre qua e là eppure sto ferma e non ho voglia di camminare. Vorrei correre ma soltanto per scappare, per nascondermi in un luogo ancora più deserto e desolato. E le gare, quelle fra i sensi di colpa e le gratitudini; mi sembra di essere un angelo in coda per l’Inferno.
Che terribile negazione, che disastrosa disaffermazione di me. Non so più parlare di concretezza, non so più accarezzarmi i capelli e dirmi che mi voglio bene, sentirli morbidi e abbandonati sotto le mie dita. Non riesco a comunicare un bacio senza labbra, attraverso gli occhi, e non riesco più a parlare senza farmi del male.
Mi sento un pesce, che affoga e boccheggia nell’acqua in cui è nato; che io abbia bisogno di aria dunque? Che stia diventando un pesce fuor d’acqua e fuori di me? Non lo so, e il peggio è che credo di sapere più cose di quelle in cui veramente credo.
Il gioco fra quello che è e quello che voglio si sta facendo davvero pericoloso e io ho paura, paura di scoprire che non è un gioco; sapere che è un sogno ma non riuscire a svegliarmi. Ho paura di abbandonare l’unica vela che mi potrebbe portare dritta sulla terraferma, perché in realtà sono confinata sopra un lembo di terra da cui è impossibile allontanarsi, da cui è semplicemente permesso scappare e non tornare mai più.
Ma perché, quindi, non rimango e la faccio fin(i)ta di dilaniarmi il cuore e il corpo?
Semplice, perché quel lembo di terra si chiama vita. L’isola felice da lontano, l’approdo dei desideri, il punto fermo delle paure e dei miei terrori, e di scappare non se ne parla.
Non si può.
Non si vede.
Non devo, non vedo.

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