Bellissima la sensazione di cadere, a due passi dal vuoto, a
mille miglia dalla strada, a un soffio dall’infinito.
L’universo, come petali di rose rosse, turbina accanto, e
riscalda le mie membra impaurite dal volo.
Cerco un volto, forse il tuo, forse la fusione dei nostri;
forse cerco semplicemente un nome da assegnarti, il mio non lo ricordo più.
Potrei identificarmi con qualsiasi cosa, nei passi di un
bambino o nell’ultimo respiro di chi si trova in fin di vita. All’estremo,
potrei identificarmi con un Sé fasullo, ma finirei solo per coprire di menzogne
le menzogne.
Nell’identificazione sta tutta la ricerca dell’Io, perché a
volte è più preoccupante il nome e non l’essenza. Del resto, una sostanza non
ha vita se non viene chiamata in qualche maniera. Un bambino, dall’infanzia,
impara a riconoscere le cose attraverso la maniera in cui vengono chiamate; ma
è anche vero che riconosce la mamma, e non necessariamente ne sa il nome.
Quella, è pura reazione d’istinto.
Essenziale è conoscere le cose per nome ma viverle per
istinto. Non mi importa sapere come si chiama la pianta bellissima che sboccia
in giardino a primavera se non ho dentro di me l’amore per la sua cura. Non è
importante osservare le esperienze vive e vissute se non si investe con e
contro di loro, come un treno merci che si schianta contro un muro.
E’ molto più doloroso l’impatto col nulla che l’impatto,
anche se bruciante, con il Vivo. E rimangono i segni, quelli di una lotta a
volte leggera e per la maggiore spiazzante.
La tragicità non sta nello sbattere contro,
nell’attraversare la propria vita, ma nell’attraversarla come un passante nella
propria città di sempre: non la osserva più, non la vive a pieno, non ne sente
più il profumo un tempo inebriante.
Ben altra cosa è invece la città con gli occhi del turista:
come una vista dall’alto, il nuovo è in grado di emozionarci e di spingerci in
fondo, con gli occhi viviamo la sensazione del volo, della prospettiva, da
lontano seppure immersa di quella realtà.
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