La Bambina, e
l’infinito.
[…] E fu quando conobbe il sole,
che cominciò a cercare
l’infinito. […]
La bambina, e il mare.
Non aveva mai guardato il mare con gli
occhi stanchi.
Nella sua immaginazione le onde che sbattevano, che rumoreggiavano, che le
solleticavano i pensieri erano così dolci, soavi, inerti.
Un giorno, trovò il mare nei suoi occhi. Le nuvole ne oscuravano il riflesso, e
il sale bruciava. Feriva, infieriva sul suo sguardo, rendendola incapace di
guardare oltre e di guardarsi.
La schiuma languiva le sue pupille, le dissolveva e le riduceva in contorni
indefiniti.
Le ciglia erano diventate evanescenti e il suo respiro affannato, mentre
cercava di lasciare andare le onde verso l'infinito. Eppure le aveva imprigionate
nei suoi occhi, e ne era cosciente. Aveva teso loro una trappola e aveva goduto
nel vederle ridotte a semplici e insignificanti movimenti ondulatori che
dell'infinito non avevano più traccia.
Si era resa conto di essere felice di avere preso possesso della loro libertà,
del loro dolce ondulare sereno e pacato, mentre dentro di lei era in corso una
bufera.
Già, perché se fosse stata una guerra avrebbe lottato contro un nemico reale.
Ma la bufera che lentamente la distruggeva non era tangibile, e non aveva nulla
di materiale.
Erano solo lei, e lei stessa. E la trappola del mare.
La bambina, con la
sabbia tra le mani.
Scava nella sabbia umida, alla ricerca dei granelli, dei
momenti e delle persone che ha perso.
Il dolore nei polpastrelli la riporta alla realtà, e negli occhi spenti e
vuoti, gli occhi bianchi e puri della sua mente non vede che immagini riflesse,
che non esistono, giochi di colori opachi, che non comprende;
è così abituata a vedere le cose bianche e nere, anche gli alberi a primavera e
i fiori nei campi estivi.
Avrebbe un solo desiderio: che il sole la bruciasse come fa col grano, che
seccasse la sua pelle fino a romperla in mille pezzi come fa con la terra nella
piena arsura estiva.
Vorrebbe che la luna e la terra si chiudessero a cerchio e la inglobassero
nella loro bellezza luminosa e triste, che quasi fa male tanto è grande.
Vorrebbe che la sua bocca non riuscisse più a parlare,
cucita con fili di acciaio, senza proferire più parole di piombo.
Vorrebbe che ogni eccesso si trasformasse nel normale scorrere della vita
quotidiana, come in un film: dove tutto è scandaloso, dove tutto finisce, dove
tutto è normale.
La bambina, e le nuvole.
In mezzo a loro, si smarriscono i ricordi.
Lei, cerca incessantemente una maniera per riordinarli, ma
il cielo è così variabile che compaiono e scompaiono continuamente.
C'è un modo per acchiappare le nuvole?
-Già, forse potrebbe fare loro una fotografia. Potrebbe immortalarle nella loro
forma instabile, potrebbe bloccarne i movimenti con uno scatto. Ma succederebbe
che, dopo lo scatto, loro si muoverebbero comunque.
[Già, se fermo l'orologio non fermo il tempo.]
Potrebbe provare a scriverne. A descriverne i movimenti, i colori, i giochi.
Ma come si scrive del cielo? Con quali parole? Basterebbero quelle che ha
imparato a scuola, o sono necessarie nuove espressioni, nuovi giochi di parole,
nuovi proverbi? Come si scrive dell'infinito?
Qualcuno ci ha provato una volta; anche lei ci prova continuamente, quando
tenta di descrivere l'Amore, quando tenta di catalogare i sentimenti, quando
cerca d'inscatolare le emozioni, sue e altrui.
Ma nel suo cuore, sa che non è così.
Lei sa che le fotografie, le parole sono solo tentativi di inscrivere dentro di
sé qualcosa che non vorrebbe mai
perdere,e che vorrebbe conservare davanti ai suoi occhi, come lo specchio
restituisce l’ immagine.
- Perché in realtà, i ricordi sono già fotografie senza scatto, sono parole
senza inchiostro.Ma ogni tentativo di materializzarli diventa inutile.
E' la sensazione che la pervade sempre: quella secondo cui ‘sta provando
qualcosa, ma non riesce a spiegare come, quanto, perché.’
La sensazione umana di voler essere onnipotente ma di avere coscienza che
questo è impossibile. E la continua tensione verso l'infinito, la tiene in
vita.
E la avvicina al terrore che ha di sé stessa. Ma con
coscienza, con coerenza, con complicità.
La bambina, e i sogni.
Tu, hai paura del buio? Lei, ne aveva un po’.
Era combattuta fra il desiderio di nascondersi fra le
coccole che il buio poteva darle e l’insicurezza di non poter vedere con i
propri occhi la strada da percorrere.
E poi, parlare nel buio, parlare con il buio era inutile:
l’unica voce che si udiva era l’eco sussurrato delle sue parole. Quel silenzio
era comunque ristorativo: udire il riflesso delle sue parole aveva qualcosa di
poetico, come quando ci si guarda riflessi in un lago e i contorni ben definiti
del viso risultano frammentati ed imperfetti.
Ma la cosa per la quale non avrebbe mai barattato il buio
con la luce erano i sogni: quei piccoli lapsus di gioia, quelle perle di
immaginazione, quei bellissimi castelli costruiti sulla riva del mare, quelle
intrepide lotte in cui lei usciva sempre ferita ma vincitrice. Si domandava se
anche la vita, talvolta, l’avrebbe resa come nei suoi sogni, anche solo un po’.
La bambina, e la chiave.
Lei credeva nei sogni. Loro erano la sua via di fuga,
quando le sue gambe non ne volevano sapere di correre; loro erano gli amici che
la consolavano, quando nessuna parola o nessun regalo le strappava un sorriso;
loro erano la porta di accesso alla speranza, quando nessuna porta si apriva
davanti a lei.
Nel suo rifugio, nella scatola dei suoi sogni si sentiva
protetta, si sentiva coccolata, si sentiva amata.
Quella scatola, ormai, era stata logorata; da troppe
lacrime, da troppi accessi con foga, da
calpestii di piedi troppo arrabbiati.
E allora decise che era ora di buttare quella chiave
nell’infinito e guardarla mentre veniva inghiottita, senza tristezza, con una
rinnovata voglia di cambiare chiave, di aprire altre porte, di far filtrare la
luce attraverso finestre ariose e spensierate.
Si rese conto che avrebbe cercato una chiave soltanto da
quel momento, una per tutte: la chiave che apre la porta, le porte della Vita.
La bambina, e le stelle.
Ai piedi del letto aveva un tappeto, di quelli che si
comprano alle fiere con mamma e papà.
Il suo era di un bel blu, con le stelle tanto grandi che
contenevano entrambi i suoi piedini quando scendeva dal letto, ogni mattina.
Era morbido come il pupazzo che stringeva prima di dormire, soffice come una
torta appena fatta, luminoso come la spiaggia che amava tanto visitare durante
le vacanze.
Non capiva come una distesa così infinita, intensa e
intrigante come il cielo di notte potesse essere costellato da così tante
piccole luci, e come da vicino queste luci potessero diventare tanto grandi da
calamitare su di esse lo sguardo dei sognatori.
Fu così che chiese alla sua mamma la risposta.
Le disse: ‘Sai, io ti ho tenuto in grembo per lunghi mesi,
per me eri buio, non potevo vederti, non potevo parlarti, non potevo
raccontarti le favole prima che ti addormentassi. Eppure in quel buio, fra la
mia immaginazione e le immagini che mi mostravano di te, vedevo una luce, così
piccola da brillare su tutto, da dominare sul buio dei miei occhi ma riempire
di luce la mia vita: era il tuo cuore.
-Quello, è il solo che vedrai brillare quando attorno a te
sembra tutto buio.’
La bambina, e la neve.
Una disarmante distesa bianca, soltanto le punte dei tetti
delle case si vedono in lontananza, il gelo pervade l’ambiente come una
fotografia senza sfondo, eterea.
Gli sguardi si cristallizzano come le dita, un freddo
palpito scorre nelle vene, così glaciale da mandarle in fiamme. E il fuoco
divampa ma non regge a contatto col gelo: si affievolisce e infine si spegne,
come un sipario che si chiude sull’ultima scena.
Sembrava strano, eppure era vero: aveva perso la via di
casa. Attorno a lei solo un candore che la preoccupava, un silenzio troppo
silenzioso e troppo opprimente per poter essere reale. Ma non stava sognando:
pochi secondi prima era lì, sul balcone di casa, e il sole splendeva alto nel
cielo.
Poi, la bufera, il freddo, la solitudine: era così facile
sentirsi perduti.
La bambina, e il tempo.
Buon compleanno! Le grida degli amici provenivano da ogni
lato del giardino, tutti erano in festa e giocavano felici, lei aveva appena
spento le candeline, ed era contenta.
Buon compleanno. La nonna, distesa sul suo letto, non era
serena. Lacrime silenziose sgorgavano sul suo volto, e un sorriso forzato
riempiva un viso altrimenti troppo scarno.
Non c’erano candeline, non c’era una torta di cioccolato e
panna montata, non c’erano amici, e non giocavano in giardino.
Ma una cosa c’era:le avrebbe preparato una torta con tante
candeline, non dei suoi anni, ma dei granelli del suo cuore, ciascuno dei quali
conteneva tanto amore quanto una distesa di sabbia.
L’avrebbe portata in giardino, e raccolto un mazzo di fiori
così grande che il cuore della sua nonna sarebbe straripato di gioia.
Avrebbe fatto una
fotografia di loro due, guancia contro guancia; una fotografia impressa nei
loro occhi, che non aveva bisogno di parole, di rullini e di album, che nessun
compleanno e nessun tempo avrebbe scalfito.
Sarebbe rimasta il loro regalo, sempre.
La
bambina, e lo sguardo.
Quando
guardava le carte geografiche s’immaginava il mondo, i colori e i profumi dei
luoghi che avrebbe voluto visitare.
La
natura forte e selvaggia delle grandi foreste, l’atmosfera afosa e asfissiante
dei deserti, le monumentali città da guardare con gli occhi spalancati.
E poi
guardava attorno a sé, le luci della classe riflettevano sul biancore del suo
banco lanciandole addosso una scia trasparente ma ben delineata.
E su
quella scia correva veloce la sua fantasia, che non aveva bisogno di strade a
troppe corsie, la polvere non poteva confondere i suoi desideri e là, dove
credeva di perdere l’orientamento, la bussola dell’anima la riportava al suo
Nord, da cui era partita – o forse fuggita -
e verso cui avrebbe voluto ritornare – o scappare di nuovo? -.
Come
un amore intenso ma fugace continuava a piccoli passi ad immaginare paesi e a
masticare sogni, con nient’altro che gioia negli occhi e fame di vita nello
stomaco.
La
bambina, e la maschera.
Finalmente
era arrivato il carnevale.
Finalmente
il costume che ogni sera, prima di addormentarsi, ammirava con orgoglio la
copriva per intero. Le servivano soltanto le mani libere, e gli occhi, per
scrutare tutte le maschere della festa.
Ce
n’era una che apprezzava particolarmente: era una perfetta suddivisione fra la
luce e il buio, fra il chiaro e lo scuro, fra il bianco e il nero. Anche la
testa era nettamente separata fra i due colori, quasi a voler mostrare un
matrimonio riuscito ma imperfetto.
La
cosa che più di tutte l’attirava era la linea di demarcazione dei due colori:
non sapeva se vederla come un inizio, del nero, o una fine, del bianco.
La
bambina, e il sé.
Voleva sapere quanti erano
gli strati, prima di arrivare al Se(Me) ?
C’era lo strato superficiale, tirato a lucido; quello che si rinnova ogni
giorno, che cambia ma rimane lo stesso, quello che tutti vedono ma dentro al
quale nessuno scava [o vuole scavare].
E poi appena uno strato sotto, affiorano le prime crepe; le parole dette-non
dette, quei respiri trattenuti ma solo per pochi istanti, i piccoli dolori
passeggeri.
Scendendo più in basso, di lei, si aprono le voragini dell'Io; la matriosca non
si apre solo in due parti, ma in mille; e se avesse voluto ridurre le crepe a
due, sarebbero state quella del Conscio dichiarato e dell'Inconscio nascosto,
perverso, duro, complesso e complicato.
Tutto ciò per proteggere quel Se(me) distante e incompreso, quello che vorrebbe
essere chiaro ma si nasconde, quello delle evidenze inintelleggibili, quello in
cui desideri e paure si mescolano fino a diventare sensazioni, imposizioni
della mente.
- Ma quant'è grande questo Se(Me) che si basa su così tanti presupposti?
Si chiedeva: vale la pena
continuare a trincerarlo fra le catene illusorie e le maschere dell'Io?
E [Se] poi non valesse
così tanto; e se [Me] continuasse a confondersi?
I due, troppo vicini,
rischiano di plasmarsi l'un l'altro; e lei, di ritrovarsi fra le mani un
burattinaio senza più fili.
La
bambina, e le parole.
Cercava sempre un
pretesto, un modo, un’ emozione per parlare,lei. A volte, per sopperire alla
mancanza, al silenzio che vigeva fra lei e la sua anima, parlava con i muri,
con le finestre, faceva scorrere parole fra le sue dita e ,respirando, quasi in
affanno, si precipitava a cercare quello che non riusciva a comprendere.
Una notte fece un sogno:
una voce candida, un viso etereo, un temporale di luce sopra i suoi occhi, le
nuvole gli danzavano attorno come le vallette di un talk show.
-
Sorridi, perché sul tuo viso
è come una magia.
Sii
felice, perché c’è sempre una ragione per farlo: la felicità è una malattia,
altamente contagiosa, altamente pericolosa, altamente raccomandata.
Sii
sincera, perché le bugie hanno le gambe corte, e con la verità puoi volare
lontano.
Sii
forte, perché dopo la sofferenza il domani ti precede, e ti apre la porta.
Sii
te stessa, perché sei bellissima così. Lei si svegliò, d’un tratto: e seppe che
non era così indispensabile, cercare sempre le parole.
La
bambina, e il buio.
La osservavano tutti,
quando piangeva su quel treno.
Non piangeva per un
giocattolo, non voleva sapere quando sarebbe arrivata a destinazione, non
voleva continuare a piangere ma la fontana della sua sofferenza sgorgava
imperterrita bagnandole occhi e guance.
Guardava fuori dal
finestrino: il sole le rifletteva sulle lacrime come sulla superficie del mare,
e la sera i raggi di luna pungevano i suoi occhi stanchi.
Per quanto la luna fosse
grande, era il buio attorno a lei che inghiottiva i suoi pensieri, e che le
faceva paura. Là, nonostante gli occhi limpidi e la mente aperta, non riusciva
a scorgere nulla se non in lontananza: le case, le luci, gli sfondi della città
venivano risucchiati dal treno che correva veloce.
Nemmeno i sobbalzi la
distraevano: aveva tracciato come una linea retta che teneva incollati i suoi
occhi al buio, e come ipnotizzata non riusciva a distogliere lo sguardo.
Pietrificata, assente ma
attenta, si chiedeva come questo buio somigliasse tanto all’assenza di quella
persona che aveva tanto amato, ora sdraiata su un letto dal quale pareva non
avesse mai la forza di sollevarsi. Con le pupille aperte ma sfocate, con le
mani immobili e le dita che tremavano lievi, sembrava un film rimasto a metà,
con la stessa scena ripetuta all’infinito.
La scena di un grande
amore, che termina con i titoli di coda, ma che in realtà mai sarebbe
terminato.
La
bambina, e il profumo delle foglie d'autunno.
Girava in cerchio attorno
a quell’albero di pesco, che finita l’estate un po’ diventava triste e non
faceva più frutti né fiori.
A terra le foglie
diventavano del colore della terra e del rosso di sera, e il profumo dell’erba
rendeva tutto una favola bellissima.
Mano a mano che si
stancava, restringeva sempre di più il cerchio attorno al pesco, quasi volesse
entrare in contatto con lui e parlargli, stringerlo, toccarlo e donargli
affetto. Era quello, il suo migliore amico.
Lo salutava dal balcone,
appena sveglia. Lo guardava meravigliata quando faceva colazione, sorpresa del
fatto che lui stesse sempre immobile, che non avesse mai sonno, né fame, né
voglia di giocare.
E lui l’aspettava sempre,
non si opponeva ai suoi abbracci, non si ribellava quando le gridava contro la
sua rabbia, quando lei si chiedeva perché non rispondesse mai.
Con il tempo, cominciò ad
amare il suo silenzio, perché le trasmetteva pace quando tutto il mondo
gridava, le donava un amore silenzioso quando gli altri la ignoravano.
E quando cambiò casa, il
suo cuore pensava a lui, spesso, e in quei momenti si sentiva come il pesco,
d’autunno.
La bambina, e il dolore.
Le lacrime riempivano i suoi occhi, la gola bruciava e il cuore era
infiammato dall’emozione.
Quell’emozione, la consapevolezza della sua colpa pesava come un
macigno dentro di lei. Non era stata nessuna tempesta a bagnare e a distruggere
la terra fertile, non era stato nessun sole cocente a bruciare tutte le
coltivazioni di quell’anno, non era stato nessun vento a soffiare via quello
che era rimasto da seminare.
Erano state le sue mani, come in un incubo, a distruggere quel terreno
fecondo, a strappare con rabbia tutte le piante e tutti i fiori e a gettare nel
vento le sementi tanto attese.
Era stato il suo cuore, duro come ghiaccio e insapore come un pasto
precotto, a guidare le sue mani, e loro avevano compiuto il resto. I suoi piedi
calpestavano tutto quello che incontravano, tutta quell’esplosione di frutti e
fiori che lei da sempre amava.
O forse si era illusa di amare.
Il senso di colpa era amaro e raschiava, in fondo alla gola, come
braci dure e spente.
La bambina, e il dovere.
Qualcuno avrebbe deciso per lei, come sempre.
Del resto era troppo piccola per avere voce in capitolo, chissà se
fosse un caso che soffriva spesso di abbassamenti di voce; come se la sua voce
a un certo punto si rifiutasse di nascondersi ancora, e scappasse
definitivamente da lei. Come se quella voce che tanto aveva paura a far udire
potesse in qualche modo cambiare il mondo.
E così seguiva chi la conduceva, ascoltava sempre chi le parlava e le
diceva che era meglio fosse stato così, che lei non era ancora in grado di
sapere cosa sarebbe stato meglio, che lei ancora non era in grado di far
sentire la sua voce.
Cosa significava, la sua voce? Era soltanto l’ennesimo grido di
vittoria, era forse sintomo di gioia, era un modo per farle più male di un
calcio?
Quando seppe che la sua voce altro non era che lei stessa, fece pace
con lei e con il silenzio. E loro tre, da quel momento camminavano insieme per
mano, senza stringere troppo forte, senza farsi troppo male, senza lasciarsi
andare mai.
La bambina, e le stagioni.
Si dice che con la bella stagione si esce di più, ci sono le giornate
che profumano di sole e di bel tempo, i parchi sono tutti grida e giochi, le
strade brulicanti di vita.
Si dice anche che l’inverno, freddo e umido, porta tristezza nelle
vite delle persone, soprattutto in quelle dei bambini, che devono confinare la
loro voglia di muoversi tra i banchi di scuola e le mura asfissianti delle loro
case.
Non si dice mai, però, a lei piace tanto l’inverno: le piace il sole,
d’inverno, perché è più puro, più pulito, più semplice, più asciutto. Le piace
la pioggia d’estate perché rompe la monotonia, rompe il caldo e l’afa,
rinfresca l’aria e ristora i corpi.
Le sue stagioni avevano tutta l’aria di essere al contrario, come se
lei camminasse sul mondo a testa in giù, come se lei vedesse l’inizio là dove
tutti vedevano la fine, come se lei vedesse l’alba là dove tutti vedevano il
tramonto.
Meno male che esistevano la primavera e l’autunno che la facevano
somigliare, anche poco, a tutto il resto del mondo.
Metamorfosi,
di una bambina perbene.
Lei, voleva sentirsi
alternativa.
Si chiedeva cosa serviva, per potersi distinguere dall'immagine che all'esterno
di noi veniva creata, inconsciamente, realmente o illusoriamente,e che veniva
regalata all'ambiente di vita quotidiana?
Si chiedeva se i contorni che le venivano disegnati ed incollati addosso [e
dentro] riguardavano i corrispettivi che lei pagava al mondo? Sono in realtà lo
specchio del suo opposto o la restituzione, la fotografia di quello che aveva
infossato in lei e non voleva più tirare fuori?
E non avrebbero potuto essere più semplicemente il ritratto di lei stessa?
Era così facile, a volte, essere quella che era davvero, che s'inventava la via
più difficile e complessa per arrivarci; ovvero il fingersi qualcosa e qualcuno
che non le somigliava.
- Era un po’ come la somiglianza fra lei e suo padre; avrebbero potuto essere
davvero immense le similitudini ma suo padre non sarebbe mai stato identico a
lei, pur l'uno avendo generato l'altra.
E nemmeno lei era davvero madre dell'Idea che la definiva, all'esterno;avrebbe
potuto in realtà somigliarle molto, ma senza nessuna pretesa di sovrapporsi,
nell’identificarla.
La
bambina, e l’Amore.
Desiderava
averlo.
Ma
non era possesso, il suo desiderio; voleva averlo contro la sua carne ma anche
dentro di lei, anima contro anima, se non una fusione, gli avrebbe lasciato
volentieri tutto lo spazio di cui avrebbe avuto bisogno.
Occhi dentro ai suoi, quelle perle color cioccolato caldo così intense,
struggenti, magiche.
E il profumo delle labbra di lui, così vicine alle sue, ma così insolenti da
sputare, spesso, troppe sentenze. Parole vuote e incoronate dalla sua voglia di
non averne abbastanza, mai.
Provare rabbia sarebbe stato qualcosa, ma dentro di lei lo ossessionava; non
voleva, non poteva averne mai abbastanza. Avrebbe voluto divorarlo, per averlo
completamente, in maniera osmotica e quasi dispotica.
La regina del nulla, la chiamavano. Tanto voleva avere, nulla poteva comandare.
Eppure, lei lo voleva. Il
dolce ossimoro della distruzione.
La bambina, è diventata donna.
L’amore, il mare, farsi
male.
Eterna lotta fra di loro,
o almeno così sembra.
Sono in realtà molto più vicini di due fratelli nati nello stesso istante.
Si sovrappongono, si
amalgamano e si confondono, per dare vita ad un amore malato, un amore che
spesso è causa e risoluzione di sé stesso.
- Già, lei sapeva, non si può amare senza farsi male, non completamente.
L'amore non è male, ma sovente con esso s'identifica e ne delinea i contorni.
Ed anche l'amore malato soffre, d'una discrepanza continua fra il desiderio e
il suo essere.
Poiché non viene desiderato mai ciò che è, ma è sempre un po’ come è stato
desiderato.
E quel poco è la causa del male.
Nessuno le ha insegnato ad amare, nessuno sapeva alla perfezione come fare; e
anche lei andava a tentativi, come quando si sbucciava le ginocchia, per
provare l'equilibrio sulle proprie gambe.
Cadeva e si rialzava,
innumerevoli volte.
Non sempre si feriva, ma spesso; alcune volte rideva, anche. E non rideva
perché godeva del male, ma rideva del fatto che, ancora una volta, si era
alzata in piedi, da sola.
E se qualcuno, una volta, le aveva detto che dentro sarebbe rimasta sempre un
po’ bambina, di certo in amore non sarebbe cresciuta.
- La lotta fra il corpo
adulto e il desiderio infantile è sempre lì.
[Titoli
di coda.]
Libro terminato. Mano
ferma.
Brividi che s'inceppano.
Dentro a questo film, i titoli di coda sono sfocati, non definiti, fibrillosi.
La retroilluminazione
manca, non riesce a vedere nulla, nemmeno l'ombra di quella che, alla fine,
sarebbe risultata la sua storia.
Arrivata già alla fine,
eppure manca ancora tutto; le manca anzitutto l'ispirazione, l'ispirazione di
vedere quello che sarebbe stato, e di quello che invece non é.
Dovrebbe riscrivere, tutto; forse. Ma é arrivata troppo oltre, si é spinta
troppo in là, troppo oltre i confini della sua personale comprensione e
cognizione delle cose.
E così ha conosciuto il piacere di stare sola, quello di parlare con se stessa,
senza mediatori; e senza troppe catene.
Ha rotto tutti gli argini ed è straripata dentro le rive di quel mare che
detesta, ma che l’ha dissetata; troppo salato, da cui era pur sempre dipendente
e cieca di fronte alle sue onde.
Quei movimenti che le rimbalzavano
nello stomaco e che sopraggiungevano quando era giù, e la riscuotevano, e la
animavano,e le violentavano l'anima. E la percuotevano, e così diventava cieca,
di fronte al suo nome.
E allora si lasciava
accarezzare, si lasciava ammorbidire da quella schiuma bianca, che lambiva i
confini, seppur instabili, del suo sguardo, e la riconduceva là, dove temeva di
essersi persa.
[…] E fu quando conobbe
l’infinito,
che cominciò a cercare sé
stessa. […]